“Che brutta una città che si chiude disperata e non vale l’apertura del mare a darle respiro, né il sole, la storia, le sue belle donne a darle vita…” : sono questi i versi di un poeta salernitano, Antonio Scelza, ex sessantottino, che ricorda, confrontando col presente (a cui probabilmente si riferiscono i versi), gli anni della giovinezza, gioiosi, irripetibili, unici per quel che riguarda l’esperienza di vita e, sicuramente, le aspettative di un’intera generazione ( figlia di chi aveva sofferto la guerra e, prima ancora, il fascismo). Anche a Salerno arrivò il ciclone del 68, con le sue problematiche, che si collegavano al resto del mondo, i suoi entusiasmi, la fiducia e la speranza di mettere in discussione il vecchio mondo borghese, i privilegi, le chiusure, le caste, i soprusi, le ingiustizie, le guerre. Il 68 arrivò a Salerno in un momento propizio, quando all’esplosione del boom economico, fatto di sviluppo industriale, di edilizia e di infrastrutture, di crescita degli impiegati e del terziario in genere, corrispose una idelaità da portare avanti, per la quale valesse la pena di impegnarsi e di trasformarsi da gioventù che imitava nella forma e nel modo di vivere i modelli consumistici freschi freschi arrivati dall’America, in gioventù impegnata nel cambiamento delle istituzioni, a partire da quella scolastica e universitaria, per poi comprendere l’ industria e tutto il sistema nel suo complesso, aprendo i conti con la politica. Fu un periodo complesso ed esaltante, in cui folle di giovani e migliaia di lavoratori si trovarono d’accordo nell’elaborare nuovi criteri di organizzazione culturale e del lavoro, in un’ottica di rimozione dei privilegi accettati come legittimi e rappresentanti invece vecchi e vessatori autoritarismi. Così ricorda l’estate del 68 un protagonista di quel periodo intenso e fruttuoso: “Fu un’estate meravigliosa. Avevavamo seguito le vicende delle università americane, dove gli studenti, come noi in Italia, si opponevano alla guerra in Vietnam. C’era un’altra America, alternativa. Si parlava di Marcuse. Cominciavamo a cercare le riviste, che all’epoca erano l’unico strumento di trasmissione di quella cultura. Riviste di critica letteraria e artistica, quali Quindici, Carte Segrete, e quelle più politiche, tipo Quaderni Piacentini, Quaderni Rossi, Critica Marxista”. Un lavoro di ricerca, prima ancora che di studio. “Le acquistavamo da un edicolante anarchico all’inrocio di via SS. Martiri con C. Vittorio Emanuele e da Umberto Carrano, il libraio dei Mercanti… Seguivamo le vicende del maggio francese e discutevamo fino tardi nelle cantine del centro storico e di Fratte…” Gli studenti di Salerno non volevano essere da meno di quelli di tutte le altre città italiane e del mondo, mobilitate per il cambiamento, che di fatto si traduceva nella volontà di partecipazione e di scardinamento di tutte quelle caste che fino ad allora avevano caratterizzato e governato la società italiana. Si muovevano con il consenso e la partecipazione degli operai, dei lavoratori delle industrie che si trasformavano e di quelle che si creavano ex novo, stimolate dalle sovvenzioni e dalle scelte strategiche per lo sviluppo industriale del Sud da parte dello Stato. Appoggiati dai sindacati, specie la CGIL e dai partiti, per tutta la città si respirò un’aria nuova e diversa, che rafforzava le amicizie, ne faceva nascere delle nuove, contribuiva ad emancipare le donne dal ruolo subalterno ed esclusivamente domestico dove fino a quel momento erano state assorbite e relegate, faceva intravedere spazi aperti di libertà dal bisogno, dalla miseria, dallo sfruttamento, dalla dipendenza, dalla schiavitù dell’uomo da parte dell’uomo. Ma partiva da cose semplici e scontate, che sapevano di antico e che in quel momento storico davano il senso di essere state trovate per la prima volta: la solidarietà, la benevolenza, la lealtà, il confronto, la lettura e lo studio degli autori italiani e stranieri, la visione dei film con dibattito che riflettevano e prospettavano il passato e la realtà contemporanea, la volontà di studiare e di dialogare senza sosta, l’analisi del periodo storico in cui avevano vissuto i genitori, con una sete di conoscenza che andava oltre il cartaceo per confrontarsi con la vita del momento autentica e sociale… E’ stato un periodo bello, attraversato da interessi comuni, dal piacere di stare insieme, di crescere stimolando a vicenda le intelligenze gli uni degli altri, di fare amicizie, di sostenersi e di trovare il modo per rendere insieme più forti le idee che dovevano mettere in crisi i soprusi e plasmare un mondo migliore e vivibile, riconoscendosi tutti uomini liberi tra uomini liberi, in vista di una possibile e futura felicità. “In città si respirava un clima di liberazione… Nessuno era emarginato, tutti potevano esprimersi”. Ci si poteva fidare degli altri, si sapeva bene che senza gli altri non si andava da nessuna parte. Il periodo d’oro a Salerno finì presto. In Italia poteri ben radicati e complottisti mal sopportavano che si sottraessero spazi al loro controllo e si interrompesse un disegno di interessi particolaristici e personali. I passi in avanti della democrazia furono velocemente rallentati e resi vani dalla manipolazione dei dissensi e delle frange oltranziste, su cui attecchirono successivamente la violenza e il terrorismo. I conflitti tra destra e sinistra a Salerno sfociarono nella morte del giovane Carlo Falvella e successivamente in azioni altrettanto violente che consentirono l’arresto di un processo di sviluppo democratico che aveva entusiasmato il mondo e coninvolto anche il nostro Paese. Come se qualcosa di malefico avesse l’ardire e la potenza di cancellare tutto il bello e il buono che sarebbero potuti derivare da quel clima pacifico e creativo. Una rivoluzione, quella del 68, che come tutte le altre che hanno attraversato la storia dell’umanità, avrebbe avuto bisogno di essere sostenuta e puntellata, con la volontà e la forza di tutti. Ciò non è avvenuto. Ché, anzi, quel periodo glorioso venne strozzato e poco dopo ci furono altre rivendicazioni che avevano però tutt’altro aspetto. Anche questa volta interpretate dai giovani, da quelli che partono dai diciotto e arrivano ai trent’ anni. 1985. Ma si è trattato di tutt’altro. Come dice Aldo Cazzullo, che di quella gioventù ha fatto parte per motivi anagrafici e non solo e che a tale riguardo ha scritto “I ragazzi che volevano fare la rivoluzione”, riferendosi ai giovani del Sessantotto, c’è una grande differenza tra i fratelli maggiori e quelli che hanno una decina d’anni meno di loro. Che consiste in questo: i ragazzi del Sessantotto credevano nella collettività, nella progettualità della comunità tutta e quindi dei popoli che potevano riscattarsi dai mali passati e presenti con la politica fattiva e indirizzata a farsene carico e a risolverli, attraverso un legame costante, dialettico, critico e continuo con tutte le istituzioni sociali; i ragazzi che sono venuti dopo, sono stati invece individualisti, concentrati sui privilegi che avrebbero potuto personalmente ottenere. Una corsa sfrenata e disinibita per raggiungere successo e denaro, puntando non sulla solidarietà, ma sull’essere bravi, competitivi, spregiudicati: con tutte, cioè, le carte in regola per sostituirsi e passare avanti a quelli che comandavano. Hanno avuto gioco facile, perché usavano gli stessi metodi per arrivare al riconoscimento e per prendere senza fatica un’eredità che sapevano gli sarebbe stata elargita per come era e per come doveva essere. Ai ragazzi del 68, alla maggior parte dei ragazzi del 68, il senso di essere stati fraintesi e lasciati, molti di loro, all’angolo. Forse non sconfitti, neppure dimenticati. Solo, con l’amarezza di non aver potuto esprimere il meglio di sé, a vantaggio di tutti. Ma restano le poesie. La nostalgia. La memoria. La differenza, come dice Battiato, tra quegli anni e quelli che sono venuti dopo, che è come quella “tra la vita e la morte”. Il 68 è quel che sarebbe potuto essere e non si è attuato. Non è una sconfitta (se tale la si può intendere) esclusivamente per quelli che lo hanno vissuto appieno o di riflesso, ma per tutti quelli che sono venuti dopo e hanno contribuito a fermarlo, volontariamente o colposamente. La sconfitta, che potrebbe sembrare riservata solo ai giovani di allora, è invece di tutti. E’ finita la speranza. Ma è “ la speranza che dà colore ai giardini/ci fa amare la gente./ Perché accettare le cose che sono sempre così/ è morire in silenzio/senza un grido/senza l’urlo della mia generazione” (Antonio Scelza).