All’inizio di novembre, nei giorni 3 e 4 di quest’anno, è cominciato un periodo di conflitto in Etiopia che ha portato l’esercito federale a muoversi contro la regione settentrionale del Tigrai, fino ad arrivare al controllo militare della capitale Macallè. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha proclamato che le operazioni militari saranno mantenute per tutto lo stato di emergenza, ovvero per sei mesi. Il pretesto per rispondere ai tigrini è stato una presunta azione bellica del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai, attualmente al potere nella regione settentrionale dell’Etiopia -confinante con il Sudan, l’Eritrea e Gibuti- e fino al 2018 alla guida dell’Etiopia, quando è stato sostituito al Governo dall’attuale primo ministro, Abiy Ahmed Ali, ingegnere informatico, già Presidente dell’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo, etnia diffusa nel centro sud dell’Etiopia. Ad Abiy Ahmed nel 2019 venne conferito il premio Nobel per la pace, avendo egli messo fine allo scontro ventennale con l’Eritrea, liberato sessantamila prigionieri politici, revocato “la messa al bando di gruppi dell’opposizione etichettati come organizzazioni terroristiche” e aver inserito nel posti più importanti della dirigenza molte donne. Ma colpevole di avere sempre più emarginato ed eliminato dalle istituzioni di governo i tigrini. Si innesca così in una già pesante situazione mondiale e nazionale una nuova crisi, che comunque era già nell’aria, da quando il Tigrai aveva dovuto cedere la supremazia governativa ( tenuta dal 1991 al 2018) dell’Etiopia al nuovo gruppo politico, di etnia oromo, espressione della parte centrale e meridionale del Paese. Tra scambi di reciproche accuse tra il Tigrai e il Governo centrale etiope, una cosa è certa: i tigrini non abbandonano le armi contro il governo federale di Addis Abeba, superiore per capacità e mezzi bellici, e trasformano la guerra da “convenzionale” (fronte diretto contro fronte) in insurrezione, spostando i duecentocinquantamila combattenti di cui dispongono su tutto il territorio tigrino, nell’altopiano impervio e accidentato, difficile da controllare per chi non ne ha dimestichezza e conoscenza. E’ iniziata perciò per ragioni interne di conflittualità tra la regione del Tigrai e il governo federale etiopico , con il coinvolgimento indiretto dell’Eritrea (contro cui i tigrini hanno lanciato i loro attacchi) quella che gli osservatori e gli esperti definiscono “una vera guerra” per spiegamento da parte del governo federale di mezzi militari consistenti e aggiornati contro un’ampia zona del Paese che si sente discriminata e ed emarginata dalla spavalderia e i successi anche in campo internazionale ottenuti dal primo ministro Abiy Ahmed, che , tra le altre cose, era riuscito nel 2018 a fare la pace con l’Eritrea e ad intendersi con il dittatore Isaias Afewerki: da entrambi i Paesi si accettavano gli accordi di Algeri del 2000 sui rispettivi confini, dopo che per venti anni non erano stati presi in considerazione dall’Etiopia, che si sentiva da essi danneggiata. Nell’arco di qualche settimana da quando sono iniziate le ostilità a migliaia i tigrini hanno abbandonato la loro regione per riparare nel Sudan, specie dacché gli è stato chiesto di liberarsi di coloro che li rappresentano nel governo del Tigrai, ovvero degli esponenti più importanti del Fronte di Liberazione. Il governo federale centrale dell’Etiopia minaccia intanto che, in caso contrario, non avrà nessuna pietà. Il Fronte di Liberazione del Tigrai avverte a sua volta che continuerà a colpire l’Eritrea, colpevole di favorire e appoggiare il Governo federale etiope. Finisce per il momento il sogno del primo ministro Abiy Ahmed, che aveva sperato di mettere in equilibrio le molteplici componenti etniche dell’Etiopia, e così garantire, grazie agli aiuti finanziari, tecnici, strutturali, specialmente della Cina, lo sviluppo del Paese secondo i modelli offerti da realtà del Sud-est asiatico. Abiy Ahmed era qualche anno fa ritenuto l’uomo nuovo, irruente, forte, dinamico, che a soli 41 anni, nel 2018, non appena asceso al potere, aveva avuto la capacità di cambiare l’Etiopia nel giro di pochi mesi e di dare l’avvio ad amichevoli rapporti con l’Eritrea, facendo, come suggello della pace, partire da Addis Abeba il primo volo di linea nazionale per Asmara , che consentì finalmente a molte famiglie dei due Paesi di potersi riabbracciare, dopo anni di separazione. Adesso si rischia che il conflitto, oltre a coinvolgere l’Eritrea, possa sconfinare nei Paesi vicini del Corno d’Africa e avere pesanti ripercussioni su Gibuti (Repubblica di Gibuti), punto di convergenza degli interessi internazionali (compresi quelli dell’Etiopia che vi perviene attraverso lo stretto di Bab-el-Mandel), dove gli Stati della cosiddetta “globalizzazione” con la Cina e gli Stati Uniti in testa, hanno i loro interessi di traffici che passano per il Mar Rosso, il Canale di Suez, il Mediterraneo, e, per l’Oceano Indiano, arrivano fino in Oriente (Mar Cinese Meridionale) e viceversa. Anche gli italiani, come pure i francesi, i tedeschi, gli spagnoli, i turchi, i giapponesi, gli arabi dell’Arabia Saudita , etc. vi hanno le loro basi, che consentono di controllare ciascuno i propri interessi e soprattutto di “ridimensionare” la volontà di espansione commerciale (e non solo) della Cina in Africa, di cui l’Etiopia rappresenta l’accogliente porta d’ingresso.